Ettore Mo sulle lettere al figlio di Antonio Gramsci
La pubblicazione arriva a 70 anni dalla morte dell’ideologo comunista
Vi racconto mio padre, Antonio Gramsci
In un libro le lettere del figlio del fondatore del Pci. «Sotto Stalin sarebbe finito in un Gulag, peccato che l’Italia l’abbia dimenticato»
Di Antonio Gramsci è stato scritto molto e l’interesse per la sua vita e le sue opere si
è particolarmente intensificato negli ultimi mesi, mentre si stava avvicinando il
settantesimo anniversario della morte, avvenuta il 27 aprile del ’37. Ma la maggior parte
degli scritti si è concentrata sulla figura dell’intellettuale e del politico, anche per stabilire
l’attualità e validità del suo pensiero e del suo ruolo nel mondo contemporaneo. Ciò che
mancava in questa fluviale produzione letteraria era l’uomo Gramsci, l’umanità di questo
piccolo grande sardo, fondatore del Pci, emersa solo timidamente nelle Lettere dal carcere
e quasi schiacciata sotto il peso del controverso personaggio pubblico, che aveva tutto
sacrificato al suo impegno di leader comunista, militante usque ad mortem.
Ora, col libro di Anna Maria Sgarbi «Giuliano Gramsci, lettere a mio padre», che uscirà
in autunno per le edizioni Laterza, questa lacuna è stata colmata. Per oltre tre anni, a
cominciare dal settembre del 2003, l’autrice ha frequentato assiduamente a Mosca, dove
vive, il figlio superstite di Antonio — Giuliano, appunto —, che ha ora 81 anni e che,
avendo preferito la musica alla politica fin dall’infanzia, è professore di flauto e clarino
presso il Conservatorio della capitale. «Ho trascorso con lui intere giornate a passeggiare
molto lentamente — scrive Anna Maria nella prefazione —, sia per l’instabilità della sua
camminata che per il dialogo tanto affascinante quanto esclusivo». Il progetto di un libro
in cui Giuliano rievoca, con rimpianto, nostalgia e non di rado angoscia, la figura paterna,
nasce proprio al termine di queste lunghe passeggiate per le strade di Mosca quando la
signora Sgarbi (di professione avvocato internazionale) gli propose di scrivere a quatto
mani delle lettere al padre, un papà che non aveva «mai visto» e che morì in prigione in
Italia, quando lui non aveva ancora undici anni.
Le lettere sono venti. Caro papà — scrive nelle prima — «sono invecchiato, ho
ottant’anni… Tu sei sempre quello, giovane, intelligente, acuto e anche bello… Non ti ho
mai toccato con le mani, ma ti ho sempre accarezzato sulla carta e ti ho anche
abbracciato nei sogni» (ed ecco riemergere, in un flash-back, la Russia degli anni Trenta
quando in casa Gramsci, a Mosca, ci sono «preoccupazioni per il pane quotidiano» mentre
per le strade corre «l’eco delle purghe di massa e della lotta contro i trotzkisti e altri
“nemici del popolo”»).
Qualche anno dopo il quotidiano Pravdaavrebbe annunciato che l’agente
dell’imperialismo mondiale, Trotzkij, e nemico acerrimo del potere sovietico era stato
assassinato in Messico. Era il 20 agosto 1940. La notizia, annota Giuliano nel suo diario,
«ha fatto felice Baffone». Cioè Stalin, suppongo. Avesse ricevuto in carcere una lettera
mai spedita, Antonio Gramsci avrebbe aggiunto una nuova sofferenza alle tante che già
l’affliggevano apprendendo che l’infanzia, la fanciullezza e anche l’adolescenza di Giuliano
e del fratello maggiore Delio erano trascorse «senza libertà, con la paura di tutto». Una
delle poche evasioni era andare al cinema dove proiettavano film come La Corazzata
Potëmkin che piacevano a Stalin e anche «ai ragazzi della mia età». E nella stessa lettera
Giuliano informava con orgoglio il padre di aver ricevuto al termine della prima elementare
«un libro molto bello intitolato “Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice”».
Dopo la morte di Stalin, apprendiamo, a casa Gramsci approdavano spesso gli amici
comunisti italiani come Pietro Secchia, Scocimarro, Mario Montagnana (cognato di
Togliatti) ed altri: tutti curiosi di sapere come fosse realmente la vita nell’Unione
Sovietica. Anche per metterla a confronto con quella descritta da Giuseppe Boffa, primo
corrispondente dell’Unità da Mosca, o da Maurizio Ferrara. Ma certo non era quella,
avverte Giuliano, «romantica e dolce, equilibrata e serena» proposta in un libro di certo
25/3/2020 Vi racconto mio padre, Antonio Gramsci – Corriere della Sera
https://www.corriere.it/Primo_Piano/Spettacoli/2007/04_Aprile/27/gramsci_mo.html 2/2
Paolo Robotti, che definiva Mosca «grande, austera, infallibile» .
In una delle lettere, c’è un ricordo affettuoso di Palmiro Togliatti e di una sua
visita a Mosca, quando salutò «molto dolcemente» i due fratellini, «accarezzandoci il volto
e i capelli». Il leader del Pci li avrebbe poi accompagnati sulla collina dei passeri, perché
vedessero la capitale «tutta intera, illuminata e festosa». Ma al ritorno tra le pareti
domestiche, la mamma sconvolta e in lacrime diede ai ragazzi la terribile notizia: «papà è
morto». «Ebbi un colpo alla testa come di un badile che ti stacca il cranio — scrive
Giuliano —. Non ti avrei mai visto. A undici anni ti aspettavo, da anni ti aspettavo. Avrei
sentito il tuo odore, l’odore del mio papà…». Mussolini che nella sua rozzezza, lo aveva
definito «quel sardo gobbo», riconosceva però al professore di economia e filosofia
Antonio Gramsci «un cervello indubbiamente potente» e in un passaggio ampolloso ma
indubbiamente ispirato da devozione filiale, Giuliano scrive che «per fare un bel ritratto di
te bisognerebbe ricorrere alla penna di un Leopardi e di un Manzoni messe insieme. E
aggiunge: «Non si cancelleranno mai le pagine dei libri che ti descrivono, non sbiadiranno
mai le parole delle tue lettere e dei tuoi pensieri, non sbiancheranno mai le tue
fotografie».
Fosse sopravvissuto alle atrocità del carcere e avesse poi trovato rifugio nella Russia
sovietica, è l’accorata considerazione che fa ora Giuliano, Antonio Gramsci non avrebbe
avuto vita facile sotto il regime di Stalin e quasi certamente sarebbe morto di stenti in
qualche Gulag della Siberia o delle Isole Solovskij, insieme a migliaia di altri sventurati
risucchiati nel vortice delle grandi purghe. «Per fortuna — confida Giuliano ad Anna Maria
Sgarbi durante una delle tante passeggiate — nessuno di noi è finito nel Gulag».
Lui, all’Istituto musicale, aveva cominciato a studiare Johann Sebastian Bach e, avendo
appreso che in tedesco Bach vuoi dire ruscello, era giunto alla conclusione che «Bach è la
vera Germania», non quella nazista, cupa e minacciosa, che si stava espandendo sotto i
suoi occhi di quindicenne. Anche il fratello Delio, che morì nell’82 senza aver conseguito il
grado di ammiraglio cui teneva «più di ogni altra cosa al mondo», scampò alle purghe
staliniane, grazie anche all’interessamento di Togliatti. Un trapasso sereno, il suo. «Se ne
è andato senza lasciare segni di debolezza — racconta Giuliano in una lettera al padre —,
poco prima di chiudere gli occhi per sempre ha voluto mettere i tuoi occhiali, perché
diceva sempre che i tuoi occhiali erano quelli che avevano portato tutti gli intellettuali.
Anche Cechov portava gli occhiali come i tuoi, quelli senza telaio, con le lenti strette sul
naso».
Nel commiato di Giuliano Gramsci a quelli che saranno i suoi lettori c’è una nota
amara: «studiato in tutto il mondo — scrive nel messaggio finale al padre —, tu sei stato
quasi dimenticato in Italia», dove, «con la sola eccezione dei gramscisti dell’International
Gramsci Society, appari per lo più consegnato al museo dell’antichità… Ricordo il dibattito
che ci fu in Italia nel 1987, a cinquant’anni dalla tua scomparsa. Ma allora c’era ancora il
Pci, il partito che avevi fondato. Forse oggi anche la sinistra italiana non ama più il
pensiero, forse anch’essa è salita sul carro della cultura intesa come esibizione e
spettacolo».
Nel cimitero degli inglesi, a Roma, accanto alla sua modestissima tomba (che in una
visita di tanti anni fa ricordo assediata da erbacce), riposano i grandi poeti romantici Percy
B. Shelley e John Keats, «il cui nome — recita un celebre verso di quest’ultimo — è scritto
sull’acqua»: quello di Antonio Gramsci — assicura Giuliano, che a suo modo lo scandisce
ogni giorno baloccandosi tra i suoi prediletti Bach e Vivaldi — è inciso in rosso nella
coscienza di generazioni di uomini ed è impossibile dimenticarlo.
Ettore Mo